Adriano Olivetti – Cosa ci rimane della sconfitta di un innovatore

©PUBLIFOTO/LAPRESSE MILANO ITALIA 28-02-1960 L'INDUSTRIALE ADRIANO OLIVETTI.
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@bollettinoADAPT, 4 novembre 2013 

Storie di lavoro e imprese/1
Adriano Olivetti
Cosa ci rimane della sconfitta di un innovatore

di Alfonso Balsamo 

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Adriano Olivetti è la figura storica del momento. A decretarlo, c’era d’aspettarselo, una fiction ben riuscita (secondo critica e audience) trasmessa su Rai1 la scorsa settimana. Un esempio di come si possa fare cultura tramite il servizio pubblico, trovando la chiave per far entrare nelle case degli italiani personaggi e messaggi complessi. Resta comunque difficile ragionare dopo una proiezione continua, spalmata su due serate, di emozioni, suggestioni, sensazioni, immagini: il rischio di glorificazione del “santino” è sempre dietro l’angolo. La fiction però ha fornito una buona occasione per riflettere ed è riuscita a solleticare la sensibilità di ciascuno grazie alla testimonianza di una persona che di certo non era un santino, ma non era nemmeno un uomo comune. Si potrebbero dire infatti molte cose sulla vicenda imprenditoriale e umana dell’Ingegner Olivetti. E ognuno potrebbe trarne beneficio.

Qualcuno ha persino tentato di semplificare una vita complessa e intensa in qualche sigla (di partito o di area politica). Ma di base Olivetti non era “nient’altro” che un innovatore: un ponte tra il vecchio e il nuovo, una casa per accogliere i talenti, una fabbrica per creare valore partendo dalle persone. E gli innovatori sfuggono da ogni categoria, anche molti anni dopo la loro morte. Lo stesso Olivetti nel primo numero di Comunità, rivista nata nel dopoguerra, così scriveva: «Vedere nuovo significa vedere un mondo umano, veramente umano, un mondo fondato su leggi naturali, su leggi che siano eterne e siccome eterne diano vita a una società ove alberghi la quiete e risplenda la bellezza.

Bellezza, leggi naturali, quiete. Oggi queste parole potrebbero risuonare come un tentativo retorico di disegnare un mondo che non c’è e che non può esistere. Parole di un “visionario” che non si è confrontato con la realtà, un “illuminato” sui generis che non capisce i problemi della gente, la crisi, la sfiducia, i massimi sistemi. Ma Olivetti era tutt’altro: la sua intera vita è stata spesa non in nome di un ideale immutabile che andava realizzato a tutti i costi, ma in nome delle persone in carne ed ossa che incontrava sulla sua strada: situazioni drammatiche e sempre diverse a cui bisognava dare risposte concrete e creative. In una costante tensione verso il prossimo che non ammetteva compromessi. Nasce così la sua empatia per gli operai, di cui (di ciascuno) conosceva talenti e necessità. Nasce così la sua attenzione per il territorio del Canavese, e per il difficile equilibrio tra impresa e territorio. Nasce così la sua passione per la ricerca, che ha portato la Olivetti a sviluppare il primo Personal Computer al mondo, la Programma 101, che vide la luce cinque anni dopo la sua morte.

Si cede spesso alla tentazione di raccontare figure come quella di Adriano Olivetti in “modalità miele”, lo si fa ad esempio con alcuni santi o con alcuni grandi pensatori del passato, si pensi a san Francesco o a Gandhi. Si immaginano come personaggi quasi infallibili, con un non so che di divino, pura genialità a cui la vita ha riservato onori e glorie e una certa dose di fortuna. Quello che viene nascosto ai più è invece il tratto caratteristico degli innovatori nella storia: la sconfitta. Il sacrificio di una vita per seguire il senso di una missione. Anche Olivetti è uno che ha perso. Ma sapeva benissimo che il seme, per portare frutto, ha bisogno di morire completamente. Nel nostro Paese, oggi come allora, si ha un rapporto particolarmente complesso con la sconfitta. Un vero e proprio “complesso per la sconfitta”.

Nella Silicon Valley, cioè il luogo dove si fa più innovazione al mondo, ogni giorno migliaia di talenti si “bruciano” nei fallimenti peggiori. Ma è dai loro errori che sono nate le tecnologie e i concetti di cui oggi tutto il pianeta fa utilizzo. Interessante, su questo tema, il libro di Tim Harford: Elogio dell’errore. Perché i grandi successi iniziano sempre da un fallimento. Il motto della Silicon Valley è “We call failure experience!”. In Italia invece questa rinuncia al principio di infallibilità sembra molto lontana e conviviamo quotidianamente con la paura di sbagliare e di metterci in gioco totalmente. Costantemente protetti: non per nulla siamo il Paese europeo dove metà degli under 34 vive ancora a casa con i genitori; quello dove si entra più tardi nel mondo del lavoro dopo anni di “parcheggio” negli studi; il paese dove si ha timore di fare un tirocinio perché c’è il rischio di essere sfruttati per poche centinaia di Euro.

Olivetti non avrebbe avuto paure simili e non si lasciava sedurre dai facili alibi del “non si può fare”. E non semplicemente perché era il figlio del padrone, ma più che altro perché aveva bene in mente il “per-chi” delle sue azioni. Per questo è un esempio da raccontare. Olivetti non era un imprenditore che lavorava per accrescere la sua ricchezza personale. Ma non era nemmeno un filantropo che ridistribuiva il suo patrimonio ai “poveri” tra sorrisi stampati e pacche sulla spalla. Sbaglia chi accosta la figura di Olivetti a quella di una sorta di italiano Bill Gates di provincia, che per anni ha fatto il bello e cattivo tempo nella sua impresa (con condotte ai limiti della legalità) e poi, con l’avanzare dell’età, si dedica all’altro con fondazioni di carità e opere di bene.

Olivetti invece faceva del bene direttamente in impresa. Il suo obiettivo era conciliare il giusto profitto con la crescita personale, professionale e relazionale dei suoi lavoratori. Ai suoi dipendenti Olivetti diceva «Dovete conoscere i fini del vostro lavoro» e per a questi fini non si dava una risposta assoluta, unitaria e irreversibile. Erano fini cangianti che ogni lavoratore riconosceva nel corso della sua attività. Un’opera di discernimento comunitario per rispondere alla domanda: “Dove va la fabbrica in questo mondo?”. A supporto, ed è la grande intuizione olivettiana, un ambiente di lavoro fatto di biblioteche, cinema, scuole, spazi ludici, luoghi dedicati alla riflessione e alla condivisione.

In altre parole Olivetti faceva economia basandosi su una “comunità di conoscenza” che sembra antesignana rispetto alla tanto declamata “società della conoscenza” dei nostri giorni. Nella sua concezione di impresa la persona era centrale perché aveva la responsabilità di mettere a frutto il suo talento. L’orizzonte su cui la Olivetti si dirigeva non era dunque quello del benessere personale dei lavoratori, ma della loro responsabilità nei territori in cui erano nati e vivevano. Non la creazione di un’isola di civiltà, un ideale mondo perfetto staccato dalla realtà circostante (che significa anche miseria e corruzione). Ma un ambiente vivo che si nutre del territorio e delle persone che lo compongono, restituendo conoscenza, solidarietà, cura, sviluppo.

La fabbrica di Adriano Olivetti ricorda il ruolo dei monasteri medievali: il cuore pulsante di un territorio, con tutte le sue dinamiche relazionali, sociali, materiali, ma anche un luogo di accrescimento spirituale e morale. Ad oggi proprio nella Silicon Valley ci sono ambienti di lavoro all’avanguardia (basti pensare a Google, Apple, Netapp) che hanno strutture simili a quelle della Olivetti, ma non ne hanno lo spirito. Manca infatti questa proiezione verso lo sviluppo integrale delle persone e di un luogo, che è invece tipica di un approccio all’impresa legato ad una ormai sconosciuta tradizione di economia civile.

Si tratta di un modello che è nato nel Medioevo delle città e dei comuni italiani e che si basava sul concetto di lavoro come “vocazione”, sul profitto come misuratore di efficienza, sul fine dell’impresa orientato non al bene in sé, ma al bene comune. È una tradizione strutturata sugli scritti di Aristotele, Cicerone, Tommaso d’Aquino e della scuola francescana, ma anche sugli studi di economisti più moderni (ma meno conosciuti) come Antonio Genovesi e Giacinto Filangeri. Nell’idea dell’economia civile impresa e lavoro sono la faticosa ricerca dell’equilibrio tra gli interessi di ciascuno e gli interessi di una comunità e di un territorio. Così in un’impresa è possibile combinare solidarietà, innovazione, profitto, elementi che creano valore all’interno e all’esterno dell’impresa stessa.

Queste idee sarebbero rimaste solo su carta se non ci fosse stato Adriano Olivetti. L’ingegnere di Ivrea ha infatti dimostrato che “Si può fare!”, come direbbe il Nobel per l’economia Yunus. Eppure Olivetti in vita sua non ha vinto nulla e dopo la sua morte l’Italia, nonostante la Programma 101, ha perso il treno dell’Innovation Communication Technology che ha fatto la fortuna degli Stati Uniti prima e del Giappone poi.

Che cosa ci rimane allora di Olivetti e della sua apparente sconfitta? La sua fabbrica ha seguito un percorso diverso da quello che aveva tracciato e il ritorno dell’economia civile in Italia, almeno su larga scala, sembra ancora lontano.

Ci rimane tuttavia l’esempio di una persona che ha il coraggio di spendere tutta la sua vita per diffondere e condividere una cultura dell’impresa e del lavoro che faccia della persona un “fine” e non un “mezzo”. È questa la vera innovazione, concreta, di Olivetti. E non c’è sconfitta migliore di quella che regala agli altri la speranza che cambiare il mondo non solo si può. Si deve.

Alfonso Balsamo
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro ADAPT-CQIA,
Università degli Studi di Bergamo

@Alfonso_Balsamo 

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